
Non se ne vanno mai davvero le figure che hanno abitato l’immaginario collettivo. Restano come fotogrammi che non ingialliscono, come refrain che ti sorprendono ancora in testa, mentre fai altro. Quante volte vi sarà scappato al termine di una serata di canticchiare «La notte è piccola per noi, troppo piccolina» o di intonare «Da-da-un-pa» imbottigliati nel traffico. È la sorte dei veri miti popolari: sfuggono al tempo perché hanno plasmato un’epoca, un gusto, un modo di stare in scena. E quando arriva la notizia che la loro storia si è chiusa, il passato torna a bussare con una sorta di nitidezza improvvisa. Alice ed Ellen Kessler sono state per l’Italia televisiva del dopoguerra, qualcosa di più di un duo: erano un’idea di eleganza. Una geometria visiva. Un passo all’unisono che sembrava sfidare la gravità. E qualche ora fa abbiamo scoperto che anche il loro addio è stato all’unisono, preparato con lo stesso rigore con cui per decenni hanno messo in scena quel sincronismo perfetto.

“Così le abbiamo aiutate a morire”, gli ultimi istanti delle gemelle Kessler: all’unisono fino alla fine
A raccontarlo è in particolare un articolo di HuffPost, che cita la portavoce della Dghs, la più importante associazione tedesca che si occupa di fine vita. «Con loro c’erano un medico e un avvocato. Hanno fatto una prova tecnica con la soluzione salina. Poi ci siamo accertati un’ultima volta della loro libera e responsabile decisione. A quel punto hanno girato la valvola», ha spiegato Wega Wetzel. L’ultimo gesto, rigorosamente compiuto di propria mano, è la cifra assoluta di un passaggio che non ammette esitazioni né deleghe. Una scelta pensata, ben ponderata, custodita per anni. Insieme.

La bellezza simmetrica che fece innamorare un Paese
Per chi le ha viste solo attraverso gli schermi, le gemelle Kessler erano la perfezione coreografica. Teutonica, elegante, addomesticata ai gusti italiani, eppure inconfondibilmente europea. Le gambe lunghe che entrarono nel mito, i costumi scintillanti, il passo che diventò cifra di riconoscimento più di qualsiasi battuta. Ma dietro quell’immagine quasi olimpica, c’era la frattura che le aveva forgiate. L’infanzia nella Germania devastata dalla guerra, la scuola di danza bruciata dalle bombe, la fuga adolescenziale verso il padre a Ovest e l’impossibilità di tornare indietro. E, soprattutto, la violenza domestica che entrambe ricordavano con pudore, come un’origine muta. È lì che probabilmente nacque la loro scelta di non sposarsi mai, di non legare il proprio destino a nessuno. «Non siamo mai diventate dipendenti dagli uomini», diceva Alice. Una promessa mantenuta per tutta la vita, anche quando l’amore bussò alla porta con insistenza.

Gli amori delle Kessler: un capitolo che da solo basterebbe per un film
Il capitolo degli amori meriterebbe un film. C’è la notte con Burt Lancaster al George V di Parigi: un flirt giovanile, quasi cinematografico, raccontato anni fa con ironia a Barbara D’Urso. «Mi ha fatto la corte e io ci sono cascata», confidò Ellen. Una parentesi brillante, che oggi sembra venire da un’altra epoca, quella in cui Hollywood scendeva in Europa e sceglieva star sul palco del Lido come fossero apparizioni. E poi c’è Umberto Orsini, l’amore vero di Ellen. Una storia lunga quasi vent’anni, nata negli studi di via Teulada, intrecciata ai ritmi televisivi di un’Italia che non c’è più. Ellen lo amò davvero: lo difese anche quando le infedeltà diventavano barzellette mondane. La vicenda è stata ricostruita dal Corriere: le bugie, le fughe, la telefonata che segnò la fine, il tentativo un po’ teatrale di Orsini di giustificarsi dicendo di essere «diventato gay». Lei rise con amarezza, lo amava tanto, poi andò avanti. «Mi ha lasciato per una donna più giovane di 26 anni. Ci sono stata male quattro mesi. Poi mi sono rassegnata, la vita riprende». Una frase che oggi stringe il cuore per la sua asciuttezza.
Identiche, ma diverse nel loro approccio con l’altro sesso: la compostezza di Ellen e la vitalità di Alice. Una dicotomia che non incrinava la loro simbiosi, anzi: la rendeva più vera. E niente lo racconta meglio della frase che Alice, con il suo humour tagliente, regalò una volta agli spettatori: «Lei è stata con Umberto Orsini per vent’anni, io sono stata con venti uomini in un anno!». Una battuta? Certo. Ma come tutte le battute ben riuscite, conteneva un margine di verità. Negli anni, Roma è rimasta sempre la loro seconda casa. Ventiquattro anni a Trastevere, con Alice che si appoggiava all’appartamento di Ellen. La Dolce Vita felliniana filtrata dalla loro grazia tedesca, la loro presenza discreta eppure inconfondibile.

La simbiosi: appartamenti speculari, la parete anti-litigio e le abitudini gentili
Il rapporto tra le due sorelle non si può spiegare senza ricorrere al plurale. Due cuori, ma una sola memoria. Da quarant’anni vivevano in una villetta a Grünwald, vicino a Monaco: due appartamenti identici, una stanza centrale condivisa, e la famosa parete scorrevole anti-litigio. Quando discutevano, cosa rarissima, la chiudevano. E quando la rabbia finiva, veniva riaperta senza una parola. Una sintesi perfetta della loro vita: silenzi pazienti, affetto quotidiano, nessun bisogno di spiegarsi. Gli amici raccontano le abitudini gentili: una sera si cenava da una, la sera dopo dall’altra; il martedì lo Stammtisch con le signore ottantenni della birreria; gli scherzi sul fatto che mangiassero “tanta pasta senza ingrassare”. Piccole coreografie domestiche che sostituivano il palcoscenico.

La malinconia degli ultimi mesi e la decisione finale
Negli ultimi tempi, però, qualcosa in Ellen aveva cominciato a incrinarsi. Una depressione leggera, silenziosa, ma percepibile. Forse era solo stanchezza, forse era l’età che chiama i conti, forse il confronto quotidiano con un passato gigantesco. Quel che è certo è che la decisione di andarsene insieme non è stata improvvisa. Lo avevano detto, anni prima, quasi come un giuramento. Quando sarebbe arrivato il momento, avrebbero compiuto l’ultimo passo all’unisono, come avevano sempre fatto. E così è stato. La procedura, raccontata da HuffPost, è di una sobrietà tedesca che, in fondo, appartiene alla loro identità più profonda: controllo, rigore, lucidità. Una “prova tecnica” con soluzione salina, l’ultima conferma della volontà, il gesto finale compiuto da loro, non da altri. Una morte rapida, dignitosa, legale. Una scelta perfettamente consapevole.

Due icone fino all’ultimo: inseparabili
E così, nel giorno dopo il loro addio, le Kessler ci obbligano a guardare indietro. A un’Italia che aveva voglia di leggerezza, che trovava nelle loro esibizioni un’euforia innocente, una precisione che pareva magia. A un’idea di televisione che non tornerà, non perché “si stava meglio” (che poi magari è anche vero), ma perché ogni epoca ha la sua estetica. Loro ne furono al tempo stesso interpreti e costruttrici. Se ne sono andate come hanno vissuto: speculari, simmetriche, profondamente legate. Una metà dell’altra. Una storia che non si può raccontare che al plurale. E forse è questo, più della loro bellezza impeccabile, il vero lascito.