
C’è sempre quel momento in cui ti siedi davanti alla tv pensando di sapere già tutto: remake, nostalgia, social pronti a scannarsi tra chi giura fedeltà eterna al 1976 e chi vuole solo capire se Can Yaman, questa volta, andrà oltre l’immagine del bel tenebroso da poster. E invece parte la sigla, si crea quella particolare atmosfera esotica e succede qualcosa di strano: è come riconoscere al buio una melodia che non ascolti da anni. Non sai da dove arriva, ma ti riporta da qualche parte. Ecco: il nuovo Sandokan inizia così. Il bombardamento di promo aveva alzato il rischio del classico “tutto fumo, niente giungla”. La prima puntata, andata in onda ieri su Rai 1, fa proprio il contrario: prende fiato, ritmo e spazio. E convince. Molto più di quanto gli scettici avessero previsto.

“Sandokan”, il ritorno su Rai 1 funziona: perché la prima puntata convince (anche chi non vuole ammetterlo)
Partiamo dalla verità più lampante: c’è dietro un ottimo cast. Funziona visivamente, nei dialoghi, nell’alchimia che si nota tra gli attori. E funziona perché è costruito per piacere senza vergognarsene. Can Yaman porta un Sandokan fisico, scolpito, ma sorprendentemente disciplinato: meno “maschio alfa” da soap e più pirata tormentato, con una presenza scenica che stavolta regge l’ambizione epica. Alessandro Preziosi, nei panni di Yanez, è l’eleganza fatta persona: ironico, ambiguo, seduttore. Per chi ha amato il Conte Fabrizio Ristori in Elisa di Rivombrosa è una delizia per gli occhi. Ma la rivelazione, inutile girarci intorno, è Ed Westwick. Sì, il Chuck Bass di Gossip Girl. E che sorpresa: come Lord Brooke buca lo schermo con una cattiveria magnetica, un’energia da villain d’alto lignaggio che ti fa quasi tifare per lui (quasi). Io, confesso, letteralmente impazzita: porta nella serie quella scintilla internazionale che serviva per alzare il livello. E poi lei: Alanah Bloor, nuova Marianna, fragile e feroce insieme. Una scoperta. Chi scrive è convinta che nelle prossime puntate la perla di Labuan saprà guadagnare anche le simpatie di chi ora la definisce acerba.


“Meglio Kabir Bedi!”, il mantra social che non regge più
Era scontato: i nostalgici hanno aperto le danze sui social ben prima dell’inizio della serie. Frasi come “meglio lo sceneggiato del ’76!” o “Kabir Bedi non si batte!” hanno riempito ieri “X”. Tutto vero, tutto legittimo, ma anche ininfluente. La serie del 1976 appartiene a un altro mondo, a un’altra tv, a un altro modo di raccontare. Paragonare le due versioni è come discutere se sia meglio un vinile o lo streaming. Che poi si possono davvero confrontare due realtà tanto distanti? Il reboot 2025 sceglie la via più intelligente: non imita, non fa il verso allo sceneggiato (allora si chiamavano così). Apre una storia diversa, anticipa la timeline, cambia rapporti, inserisce ambiguità. Fa arrabbiare i puristi? Sì. Ma è proprio questo il punto: rischia. E la tv italiana, quando rischia, merita un applauso.


Fotografia, costumi, scenografie: l’avventura è credibile
Qui arriva la parte davvero sorprendente: la cura visiva. La fotografia è luminosa senza essere patinata, tropicale senza scadere nel finto. I costumi? Favolosi. Ricchi, vibranti, con quella ricercatezza che ti fa pensare che ogni tessuto sia stato toccato, provato, studiato. Un livello che raramente si vede nella serialità italiana. C’è poi la scelta più coraggiosa: quasi tutto è Made in Italy. Il Brunei ricreato in Calabria. Singapore che nasce a Cinecittà. Il porto di Labuan a Le Castella. Palme e giungle crescono tra Lazio e Toscana. È un gioco di illusione teatrale che funziona proprio perché non pretende di imitare il mondo: lo ricrea.


Una storia che scorre (quasi sempre), con un obiettivo chiaro
La puntata non è perfetta: qualche dialogo è rigido, qualche passaggio è troppo esplicativo, qualche scena d’azione avrebbe meritato più respiro. Ma il disegno c’è. Sembra un prodotto tv pensato soprattutto per i più giovani e questo spiega molte scelte: ritmo alto, personaggi più sfaccettati. Chi si aspetta il romanzo coloniale filologico, storcerà il naso. Beh, pazienza. Chi invece vuol sposare l’idea di un’avventura moderna che dialoga col passato, si divertirà e non poco. Magari sarà solleticato anche dalla fantasia di andarsi a rileggere l’opera di Salgari.


“Sandokan”, un kolossal che non ha paura di essere pop
In conclusione? La prima puntata di Sandokan funziona perché non pretende di essere ciò che non è. Non è un’operazione nostalgia. Non nasce per i salgariani duri e puri. È una serie d’avventura moderna, ben confezionata, che riporta la Rai dentro un immaginario internazionale. E se le prossime puntate manterranno questo equilibrio, potremmo davvero avere un nuovo kolossal all’italiana di cui parlare. Senza imbarazzo. Senza complessi. Senza inchini al passato. Già solo la prima puntata ha ottenuto il 34% di share. Ricordate lo scorso anno il successo de Il Conte di Montecristo? Sandokan non sarà da meno.