La voce dei familiari e una verità ancora sospesa
Tra i più convinti sostenitori dell’ipotesi dell’omicidio c’è Sergio Resinovich, fratello di Liliana. Le sue parole, pronunciate pochi giorni fa davanti al tribunale, sono un’accusa senza sfumature: «Io penso che sia stato il marito. La Procura ha i documenti, negli atti c’è scritto tutto». Sergio parla di una sofferenza che dura da quattro anni, di una vita rimasta congelata dal giorno della scomparsa della sorella. «Speriamo che la Procura possa dare un’accelerata, perché sono quattro anni che io non vivo, questa non è vita. Mia sorella è morta, è stata uccisa ed è provato» dice, ribadendo con forza che Liliana sarebbe stata uccisa e che questo, a suo dire, sarebbe già dimostrato. Parole durissime, cariche di dolore e rabbia, che però si scontrano con una realtà processuale ancora incompleta. Perché tra ciò che si sente vero e ciò che è dimostrabile in un’aula di tribunale, purtroppo, spesso c’è un abisso.

Una tomba senza corpo e un’attesa che forse sta per finire
A rendere ancora più simbolico questo limbo è ciò che accade al cimitero di Sant’Anna, dove una foto con il nome di “Lilly” ricorda una donna che, in realtà, non è ancora tornata a casa. I suoi resti si trovano infatti all’obitorio di Milano, dove attendono da quattro anni una risposta definitiva. È come se anche Liliana fosse sospesa, in attesa che qualcuno chiarisca cosa le sia davvero accaduto. Il tempo è passato, ma il caso non si è spento. Anzi, negli ultimi mesi qualcosa sembra muoversi. Le indagini proseguono lontano dai riflettori, e la sensazione è che una verità, qualunque essa sia, possa non essere più così lontana. Dopo quattro anni di silenzi, ipotesi e dolore, una sola cosa appare certa: Liliana Resinovich merita giustizia. E Trieste, con lei, merita finalmente una risposta.