
Quando la creatività diventa memoria: lo studio‑museo
Quella bottega nel cuore di Brera non rimase solo uno studio: col tempo si trasformò in un vero e proprio museo, custode di decenni di storia del tatuaggio. Oggetti, disegni, attrezzi, testimonianze: ogni angolo raccontava un’evoluzione — da gesto marginale a forma d’arte rispettata.
In una delle sue ultime interviste, spiegava con forza il valore del tatuaggio: non come decorazione effimera, ma come segno sociale, identitario, culturale. Diceva, secondo quanto riporta il Corriere:
“Il tatuaggio ha sempre avuto una lettura sociale positiva nelle civiltà primitive; è solo dove sistemi autoritari e repressivi si sono appropriati direttamente di esso come strumento di punizione e umiliazione … che esso suscita angoscia, rigetto e repulsione … Questo spiega forse perché il tatuaggio provoca ancora oggi da noi fascino ma anche inquietudine”.
Un’affermazione che oggi risuona con più forza: la sua visione contribuì a spostare il tatuaggio da margine a centro, da gesto ribelle a dichiarazione di sé, da stigma a espressione artistica riconosciuta.
E quando la sua figura viene a mancare, non è solo un artista che se ne va. È la testimonianza di un percorso — personale e collettivo — che ha fatto dell’inchiostro un linguaggio, della pelle una tela, del corpo un palcoscenico.
Il suo nome — Maurizio Fercioni — resta inciso, non come un ricordo nostalgico, ma come segno vivo di trasformazione e coraggio. Il primo tatuatore d’Italia ci ha lasciato, e con lui se ne va una parte importante della storia culturale del nostro Paese.