Il personaggio pubblico e l’etichetta scomoda
In televisione divenne uno dei protagonisti del dibattito sportivo più acceso e popolare. Difendeva le squadre della Capitale con ironia e piglio combattivo, contribuendo in modo decisivo al successo del programma che lo ospitava. Il suo stile era riconoscibile: diretto, a tratti provocatorio, sempre pronto allo scontro verbale. Il legame con alcuni grandi protagonisti della Roma di quegli anni, in particolare con Paulo Roberto Falcao, rafforzò l’immagine di giornalista “schierato”. Un’etichetta che gli venne cucita addosso e che non fece nulla per togliersi. Anzi, la visse come una conseguenza naturale della propria onestà intellettuale.
Emblematico l’episodio legato a una possibile chiamata da parte di un quotidiano torinese: allo stadio apparve uno striscione minaccioso, volutamente sopra le righe, che testimoniava quanto il suo nome fosse diventato simbolico anche per le tifoserie avversarie.

Il nome, la carriera e l’eredità
Gianni Melidoni si è spento all’età di 90 anni. Decano del giornalismo sportivo, ha attraversato mezzo secolo di cronaca lasciando un’impronta inconfondibile. Tra gli articoli a cui era più affezionato ricordava quello in cui aveva previsto l’oro olimpico di Livio Berruti nei 200 metri alle Olimpiadi di Roma del 1960: un’intuizione diventata simbolo di un modo di fare giornalismo capace di guardare oltre il risultato. Nell’agosto scorso, in una delle sue ultime interviste, aveva espresso un giudizio durissimo sul giornalismo contemporaneo. Parlava di un mestiere che, a suo dire, non esisteva più, travolto dai social, dalla superficialità e dalla perdita di autorevolezza. Rivendicava con orgoglio di non usare il telefono cellulare e dichiarava senza nostalgia che non gli sarebbe piaciuto lavorare oggi.
Parole che suonano come un testamento professionale. Con la sua scomparsa se ne va non solo un giornalista, ma un’idea di mestiere: imperfetta, rumorosa, partigiana forse, ma profondamente viva.