Draghi e il tesoro mai esposto
La vicenda affonda le radici anche nel 2006, quando Mario Draghi, da poco nominato governatore della Banca d’Italia, provò a sbloccare il dossier. Rispondendo al parlamentare Raffaele Costa, che chiedeva di esporre i gioielli in occasione delle Olimpiadi di Torino, Draghi scrisse che «il vincolo di indisponibilità era venuto meno» e che sarebbe stata istituita una commissione per valutare la restituzione o l’esposizione pubblica. La notizia fece titolare a Repubblica: “Sbloccato il tesoro dei Savoia”. Ma non se ne fece nulla. Lo stesso Draghi, in una successiva nota, spiegò che la Banca aveva chiesto indicazioni al governo per chiarire il proprio ruolo di depositario, vista la complessità giuridica del caso. Quel raccordo con il Ministero dei Beni culturali e Palazzo Chigi, osservava allora l’ex Governatore, non avvenne mai.
La clausola della Costituzione e la lunga ombra del 1946
La radice del contenzioso resta la tredicesima disposizione transitoria della Costituzione, che nel 1948 vietò agli eredi maschi di Casa Savoia di rientrare in Italia (norma poi abrogata nel 2002), ma mantenne la confisca dei beni appartenenti alla dinastia. Umberto II, prima dell’esilio, aveva affidato le gioie alla Banca d’Italia per proteggerle da “provvedimenti affrettati” o da “distribuzioni non conformi al loro valore storico”.
Da allora, quel cofanetto non è mai stato riaperto.
Resta dunque una domanda sospesa: perché i Savoia rivendicano oggi ciò che non reclamarono per decenni? E, d’altra parte, perché lo Stato non ha mai disposto un’esposizione pubblica di un patrimonio che rappresenta un pezzo prezioso della memoria italiana? Mentre la battaglia legale si riaccende, le Gioie della Corona restano chiuse in un caveau di via Nazionale, lontane dagli occhi del pubblico. Non saranno i “Crown Jewels” di Londra, ma continuano a brillare come simbolo di un passato che l’Italia non ha mai davvero archiviato.
