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Cinema in lutto, addio all’attore simbolo: la notizia arriva come un colpo al cuore

Cinema in lutto: chi era davvero Mohammad Bakri

In Italia, il pubblico lo ricorda soprattutto per due titoli che hanno lasciato il segno. Il primo è “Private” del 2004, film intenso, claustrofobico, dove Bakri porta sullo schermo un personaggio diviso tra paura e resistenza, trasformando ogni silenzio in un urlo trattenuto. Il secondo è “La masseria delle allodole” del 2007, diretto dai fratelli Taviani, in cui il suo volto diventa il simbolo di una tragedia storica raccontata con una delicatezza devastante. Il suo talento sta proprio qui: capace di passare da una produzione mediorientale a un set europeo senza perdere quella cifra personale così riconoscibile. Ogni volta che compariva in scena, lo spettatore aveva la sensazione che stesse accadendo qualcosa di importante, anche in una semplice inquadratura.

Curiosità da veri cinefili: molti appassionati raccontano di averlo scoperto per caso in piccole rassegne o festival di nicchia, rimanendo folgorati. Non mancavano poi gli spettatori che, dopo averlo visto in un film, andavano a caccia di tutta la sua filmografia, trasformandolo quasi in un culto personale. Ma per capire davvero il “caso Bakri”, bisogna guardare anche a ciò che è successo quando ha deciso di cambiare lato della macchina da presa e di passare alla regia.

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Da attore a regista: il caso esplosivo di “Jenin, Jenin”

A fine anni Novanta, Bakri sente che recitare non basta più. Vuole raccontare in prima persona. Così esordisce alla regia con una serie di documentari che lasciano il segno. Ma è nel 2002 che la sua carriera entra in una vera e propria zona rossa con “Jenin, Jenin”, destinato a diventare il suo lavoro più famoso e più controverso. Il documentario raccoglie le testimonianze degli abitanti del campo profughi palestinese di Jenin dopo un’operazione militare israeliana. Niente narratore, niente filtri: solo volti, voci, dolore, accuse. Un film che, fin dal titolo ripetuto, suona come un pugno sul tavolo.

Risultato? Applausi e condanne. Il film viene premiato alle Giornate cinematografiche di Cartagine, ma in Israele viene censurato. Da lì parte una lunga scia di cause legali, ricorsi, sentenze, appelli. Una vera odissea giudiziaria che lo accompagnerà per anni, condizionando pesantemente sia la sua vita personale che il suo percorso artistico. Paradossalmente, però, proprio quelle polemiche lo trasformano in una figura centrale nel dibattito planetario sulla libertà artistica. Per molti, Bakri diventa il simbolo dell’artista che non arretra davanti al potere. Per altri, un provocatore che spinge volutamente oltre il limite. In ogni caso, un nome impossibile da ignorare.

Mohammad Bakri sul set, in una scena di lavorazione

Serie tv, premi e una carriera internazionale da vero fuoriclasse

Nonostante attacchi, contestazioni e ostacoli, Bakri non si ferma mai. Continua a muoversi con agilità tra cinema, teatro e televisione, dimostrando di non essere solo un “caso politico”, ma prima di tutto un attore straordinario. E le produzioni internazionali se ne accorgono. Nel corso degli anni partecipa a serie di grande successo, come The Night Of, Homeland e “Le Bureau des légendes”, conquistando anche il pubblico abituato ai prodotti più mainstream. Vederlo comparire in questi titoli è per molti spettatori un piccolo colpo di scena: il grande attore del cinema d’autore che irrompe nel mondo delle serie di culto.

Nel 2017 arriva un riconoscimento particolarmente significativo e tenero allo stesso tempo: Bakri vince, insieme al figlio Saleh, il premio come miglior attore al Festival di Dubai per il film “Wajib – Invito al matrimonio”. Padre e figlio sullo stesso palco, un trionfo familiare che diventa subito immagine-icona per cinefili e non solo. Più di recente è apparso anche in “Tutto quello che resta di te”, saga familiare firmata da Cherien Dabis, confermando la sua capacità di attraversare generi e linguaggi senza mai perdere profondità.

Mohammad Bakri in un momento di recitazione teatrale

Onorificenze, famiglia e un’eredità che non si spegnerà

Con il tempo, perfino le istituzioni più formali hanno dovuto riconoscere il peso della sua figura. Nel 2018 il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, gli conferisce la cittadinanza onoraria, definendolo senza mezzi termini “ambasciatore e pontiere di pace e uguaglianza”. Una definizione che sintetizza perfettamente il senso della sua presenza nella scena culturale mondiale. Due anni più tardi arriva un altro sigillo importante: il ministero della Cultura palestinese lo proclama “personalità culturale dell’anno” e istituisce un premio cinematografico che porta il suo nome. Una sorta di monumento in vita, prima ancora che la parola “addio” entrasse nella narrazione della sua storia.

Dietro l’artista, però, c’era anche un uomo di famiglia. Bakri lascia la moglie Layla e sei figli. E qui arriva un dettaglio che incuriosisce molti: ben cinque di loro hanno scelto di intraprendere la carriera nella recitazione, tra cui Saleh, Ziad e Adam. Una vera e propria dinastia del cinema, destinata a portare avanti – ognuno a modo suo – l’eredità artistica e umana del padre. La sensazione, oggi, è che con la sua morte non si chiuda davvero una storia, ma se ne apra un’altra: quella di un lascito fatto di film, battaglie culturali, premi, frasi memorabili e, soprattutto, persone – i suoi figli, i suoi allievi, il suo pubblico – che continueranno a tenerne viva la memoria. Perché, al di là delle polemiche, una cosa è certa: Mohammad Bakri è stato davvero “un grande”.

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