
Tra l’8 e 9 giugno, gli italiani sono tornati alle urne per un nuovo referendum abrogativo promosso dalla CGIL, con quesiti su lavoro e cittadinanza. Una consultazione popolare dal sapore altamente politico, sostenuta da volti noti del sindacalismo, dell’attivismo e della sinistra. Ma, come già accaduto per molti altri referendum negli ultimi anni, il vero protagonista è stato l’assenteismo. L’obiettivo era ambizioso: raggiungere il quorum. Ma la realtà si è imposta con freddezza, lasciando aperte molte domande sul rapporto tra cittadini, politica e partecipazione democratica.

I risultati del Referendum
Un risultato previsto. Il referendum abrogativo dell’8 e 9 giugno 2025, che chiedeva agli italiani di esprimere il proprio parere su cinque quesiti relativi a lavoro e cittadinanza, si è concluso con un’affluenza tra le più basse mai registrate nella storia della Repubblica. Solo il 27,49% degli aventi diritto ha partecipato alla votazione, ben lontano dalla soglia del 50% più uno necessaria per il quorum. Di conseguenza, tutti i quesiti sono stati dichiarati nulli a prescindere dalle preferenze espresse.

Motivazioni Dietro il Voto (o l’Astensione)
I temi proposti dai sostenitori del referendum non erano affatto secondari. Si trattava di abrogare alcune disposizioni del Jobs Act sui licenziamenti, estendere le tutele ai lavoratori delle piccole imprese, incrementare le responsabilità in caso di infortuni sul lavoro, ripristinare la responsabilità solidale negli appalti e ridurre da dieci a cinque anni il periodo di residenza richiesto per ottenere la cittadinanza italiana. Queste proposte erano sostenute da CGIL, partiti di opposizione e da parte della società civile, ma non sono riuscite a convincere la maggioranza degli elettori. Il promotore, Maurizio Landini, segretario generale della CGIL, lo aveva definito “un referendum per restituire dignità e diritti ai lavoratori e agli stranieri che vivono e lavorano nel nostro Paese”.
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